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Yahweh: il Dio nascosto tra gli dèi di Sumer

E se Yahweh non fosse mai stato l'unico Dio, ma solo uno dei tanti? Se la sua figura, così assoluta e dominante nei testi sacri, fosse in realtà il risultato di una lunga evoluzione, di una sovrapposizione di antiche divinità? Un sincretismo tra culture, credenze e tradizioni? Questa è una domanda che cambia tutto. Perché ci costringe a rileggere le Scritture non come rivelazione unica, ma come prodotto di stratificazioni culturali, riscritture teologiche e, forse, manipolazioni. Chi era davvero Yahweh? La Bibbia ce lo presenta come eterno, unico, onnipotente. Ma il suo nome appare tardi, non è presente nei primi racconti della Genesi. Lì si parla genericamente di Elohim. Solo più avanti, con Mosè, Yahweh rivela il suo nome: “Io sono colui che sono” (Esodo 3:14). Ma perché aspettare tanto per rivelarsi? E perché parlare con nomi diversi? Prima ancora si parla di El Shaddai, di Elyon, di Adonai. Tutti questi nomi indicano forse divinità differenti, poi unificate sotto un...

Abramo, il condottiero della terra di Sumer


ABRAMO ERA SUMERO

Patriarca riconosciuto dalle tre grandi religioni monoteiste, è spesso rappresentato come il simbolo della fede assoluta e dell’obbedienza cieca al volere divino. Ma cosa accadrebbe se leggessimo la sua storia non come un racconto spirituale, ma come un frammento sopravvissuto di un’antica narrazione mesopotamica, riformulata per servire un preciso disegno teologico?
Per secoli ci hanno raccontato la storia di Abramo come quella di un pastorello errante, semplice e devoto, scelto da Dio per fondare una stirpe benedetta. Ma scavando sotto la patina religiosa, sotto le immagini rassicuranti e spiritualizzate, emerge una figura molto diversa. Una figura potente, determinata, forse persino temuta. Un uomo abituato a combattere, a comandare, a fare alleanze e guerre. Abramo, il comandante.
 Secondo la Genesi, Abram (prima di diventare Abramo) viveva a Ur dei Caldei, città sumera fiorente e centro religioso tra i più importanti dell’antico mondo mesopotamico.
È da lì che riceve un ordine misterioso da una divinità non meglio specificata (Enlil nei testi sumeri), che lo invita a lasciare tutto per dirigersi verso una terra sconosciuta, e a seguire ed adorare un altro El,  con la promessa di una discendenza numerosa e un patto eterno. Quello che contatta Abramo e gli ordina di lasciare la sua casa e la sua terra è un El, quello che poi Abramo segue e da cui prende ordini è un altro El...questo è chiaro anche nel testo biblico, sono due personalità distinte. Questo dettaglio, già di per sé affascinante, apre una domanda: perché un Dio onnipotente sceglie un uomo che vive nel cuore della cultura politeista sumera?
Ur non era una città qualsiasi: era consacrata al dio Nanna (Sin), uno degli dèi principali del pantheon mesopotamico. Era piena di templi, ziggurat, scuole di scribi, sacerdoti e tradizioni religiose millenarie. L’uomo scelto dal Dio della Bibbia proviene proprio da qui. È lecito chiedersi: quale tipo di divinità si rivolge ad Abram? E se non fosse stato un “Dio nuovo”, ma un rappresentante di quel medesimo pantheon sumerico riformulato e moralizzato, come accaduto con altre figure bibliche?
Nella Genesi, Dio appare progressivamente ad Abramo con nomi diversi: El Shaddai, El Elyon, Yahweh.
Non esiste una dichiarazione esplicita di monoteismo immediato. Anzi, il comportamento di Abramo lascia intendere che fosse abituato a un contesto politeista, e che Yahweh fosse solo uno degli dèi da seguire o temere.

In Genesi 18, Abramo accoglie tre misteriosi “uomini” che rappresentano Dio, ma che parlano anche tra loro.
Trinità? O delegati di una potenza superiore? Forse emissari degli Anunnaki?
Nell’episodio della chiamata, Dio non si presenta con un nome preciso. Solo più avanti rivelerà di chiamarsi El Shaddai, e poi Yahweh. Ma nei testi mesopotamici esistono già entità chiamate “El". La Bibbia stessa, nelle sue forme più arcaiche, alterna diversi nomi per Dio: Elohim, El Elyon, Yahweh. È possibile che il testo sia la sintesi di molteplici fonti, e che l’“El” che chiama Abram sia una divinità mesopotamica ormai dimenticata, sopravvissuta attraverso la riscrittura.
Nel capitolo 14 della Genesi, troviamo un dettaglio che spesso viene ignorato o ridotto a curiosità: Abramo organizza un vero e proprio esercito. Quando suo nipote Lot viene rapito dai re mesopotamici di Kedorlaomer, Abramo non si limita a pregare o a chiedere aiuto. Raduna 318 uomini nati nella sua casa e li conduce in un’operazione militare di precisione notturna. Li divide in gruppi, li guida con astuzia, e sconfigge re armati e organizzati. Non solo li batte, ma recupera tutti i prigionieri, i beni, e ottiene onori e riconoscimenti da Melchisedek, “re di Salem”.
Questo non è il comportamento di un pastore spirituale. È l’azione di un comandante esperto, abituato alla logistica militare, alla strategia, alla leadership sul campo.
Non sarà mica per questo che "Dio" lo aveva scelto?

Chi era davvero Abramo? Un uomo con un esercito personale, nato nella potente città sumera di Ur, in un contesto culturale di grandi signorie, città-stato e guerre per il dominio territoriale. Non viveva in una tenda tra capre e pecore. Viveva in un mondo sofisticato, strutturato, con re, alleanze, trattati e campagne militari. Era figlio di Terach, un “capo famiglia” al servizio del culto mesopotamico. La sua “chiamata” a lasciare Ur può essere letta anche come una missione politica o militare, un esilio strategico o una migrazione guidata da forze ben più concrete di quelle spirituali.
E ancora: nella Genesi, Abramo stipula alleanze con vari re locali, riceve tributi, interagisce da pari con i sovrani di Egitto e Gerar. La sua influenza è tale che ovunque si sposti, le autorità lo trattano con rispetto, o con timore. Addirittura, in Egitto il faraone lo teme al punto da cacciarlo con doni. Questo non è il trattamento riservato a un nomade qualunque.
Anche il titolo "padre di una moltitudine di nazioni" assume una nuova luce se letto in chiave militare e politica: Abramo come fondatore di una confederazione tribale, come punto d’origine di una dinastia che combina sangue, potere, e alleanze strategiche. E forse, anche il patto con Dio assume il volto di un patto di vassallaggio, in cui un’entità superiore – non necessariamente spirituale – garantisce protezione, territorio e discendenza in cambio di obbedienza e fedeltà assoluta.

 Questo patto include promesse di terra, discendenza e dominio, ma richiede in cambio la circoncisione, l’obbedienza cieca e, in un episodio estremo, il sacrificio del figlio.
L’episodio di Isacco sul monte Moriah, in cui Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di uccidere il proprio figlio, (affronteremo questo episodio in un post a parte) è stato tradizionalmente interpretato come un atto di fede suprema. Ma cosa accadrebbe se lo leggessimo come un residuo di pratiche rituali arcaiche, dove il sacrificio umano era realmente richiesto dagli dèi? Nelle tradizioni mesopotamiche esistevano culti in cui i re offrivano i propri figli alle divinità per ottenere protezione o fertilità. L’intervento finale di Dio che blocca il sacrificio potrebbe riflettere la transizione da un culto arcaico e cruento a uno più “spiritualizzato”. Inoltre, l’intera dinamica del patto richiama da vicino i trattati di vassallaggio mesopotamici: un signore potente promette protezione e ricompense al suo servo fedele, a patto che questi lo serva esclusivamente.
Il Dio della Bibbia non appare qui come un creatore distante e amorevole, ma come un padrone geloso, che impone la sua alleanza con regole severe e pretese assolute.
Tra l'altro  Nel racconto biblico, Abramo riceve l’ordine di circoncidere tutti i maschi della sua casa, inclusi servi e schiavi nati in casa o acquistati.
 Questo ci rivela che Abramo era un uomo ricco, patriarcale e schiavista, che possedeva vite umane come proprietà e imponeva loro riti religiosi radicali.
La circoncisione, poi, è un marchio indelebile sul corpo. Immagina oggi un uomo che obbliga decine o centinaia di persone, adulti o bambini, a mutilazioni rituali... senza consenso.Anche le peregrinazioni di Abramo nella terra di Canaan, i suoi incontri con re locali, le guerre e i trattati, rispecchiano i modelli epici dei racconti sumero-accadici, in cui gli eroi semi-divini agiscono come strumenti di un disegno divino che è spesso poco comprensibile agli uomini. Abramo non è quindi solo un patriarca della fede, ma anche un archetipo di mediatore tra due mondi: quello degli dèi antichi, ormai in declino, e quello del Dio unico che prende forma attraverso la selezione, la riscrittura e la cancellazione delle divinità precedenti.
In questa visione alternativa, la sua figura si carica di ambiguità e mistero. Non è l’iniziatore di un nuovo culto, ma l’ultimo anello di una tradizione molto più antica. Un “prescelto” che potrebbe essere stato scelto non da un Dio creatore universale, ma da una delle tante entità superiori che un tempo camminavano tra gli uomini, si spartivano i territori, stabilivano patti e imponevano i loro rituali. Così Abramo, da simbolo della fede, potrebbe apparire come il testimone inconsapevole di una transizione epocale: dal mondo degli Anunnaki al Dio unico della Bibbia, dalla scrittura cuneiforme delle tavolette sumeriche ai rotoli del Pentateuco, da un pantheon affollato a un monarca celeste, solitario e assoluto. Una transizione che forse non è spirituale, ma politica. E che dietro la maschera del sacro nasconde una precisa riscrittura della storia più antica dell’uomo.

Quando Abramo consegnò sua moglie ai re: il lato oscuro del patriarca

C’è un dettaglio nella vita di Abramo che molti lettori della Bibbia saltano con leggerezza, o interpretano come semplice stratagemma di sopravvivenza. Un episodio scomodo, imbarazzante, che getta ombre inquietanti sulla figura del cosiddetto "padre della fede". E se lo osserviamo con uno sguardo meno ingenuo, e più realistico, potrebbe raccontarci molto di più sul vero volto di Abramo, sulla sua mentalità e forse... su chi lo “guidava”.
Secondo la Genesi, durante un periodo di carestia, Abramo si reca in Egitto. Ma prima di varcare i confini, ordina a sua moglie Sara di dire che è sua sorella, e non sua moglie. Il motivo? Ha paura che gli Egiziani, attratti dalla bellezza di Sara, lo uccidano per poterla prendere.
Sara obbedisce. Viene portata nel palazzo del faraone. E non si parla solo di un incontro o di un colloquio. Il testo è chiaro: Sara entra nell’harem del re, viene accolta tra le sue donne, e il faraone, in cambio, ricompensa Abramo con greggi, schiavi, oro e argento.
Solo l’intervento divino, sotto forma di piaghe e sogni minacciosi, porta il faraone a scoprire la verità. E allora, con indignazione, caccia Abramo via. Ma non lo punisce. Anzi, lo lascia andare con tutte le ricchezze che ha accumulato.
Questa scena si ripete più avanti con il re Abimelek di Gerar. Stesso copione: Abramo mente, Sara viene portata nel palazzo, Dio interviene, e Abramo ne esce indenne… arricchito.

A questo punto è lecito farsi delle domande. Chi era davvero Abramo?

Forse le religioni, nel tempo, hanno scelto di addolcire il suo profilo per renderlo più spirituale, più universale. Ma nella sua origine più remota, Abramo era un signore della guerra, un leader tribale, un uomo del deserto capace di sfidare imperi e di sacrificare i suoi cari per ottenere vantaggi e privilegi.
La figura di Abramo, così come ci è stata presentata, è incompleta, levigata, ripulita. Dietro il velo della devozione, si nasconde un capo militare, un signore ricco, uno stratega politico, un uomo capace di menzogna, dominio e decisioni dure. Un patriarca, sì. Ma anche un uomo di potere, forse scelto non per la sua umiltà… ma per la sua determinazione spietata.
Forse la sua alleanza con Dio non fu una “chiamata” spirituale… ma un contratto antico, stipulato tra un emissario celeste e un capo terrestre.
E forse, tra le sabbie di Ur e le guerre di Canaan, la vera storia di Abramo ci appare per quello che era: non un santo… ma un ingranaggio umano di un disegno alieno o divino ben più antico di quanto immaginiamo.






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